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Lettura: IA e terapia: quando lo psicologo diventa artificiale
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Mondoreale > Blog > Speciali > ViteRe@li > IA e terapia: quando lo psicologo diventa artificiale
ViteRe@li

IA e terapia: quando lo psicologo diventa artificiale

Ultimo aggiornamento: 3 Novembre 2025 16:21
Alessia Giannatempo Pubblicato 3 Novembre 2025
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Quando a fare da terapeuta, abbiamo l’intelligenza artificiale, significa che infondo, qualcosa è andato storto. Facciamo un passo indietro. Lavorando a scuola mi sono imbattuta in un episodio davvero sorprendente, per il quale forse non ero ancora preparata, anche se, probabilmente avrei dovuto prevederlo. Gli adolescenti di oggi mostrano una fiducia totale e quasi illimitata nel “dialogo” con l’intelligenza artificiale. L’interazione tra intelligenza artificiale e adolescenti sta  diventando infatti una questione di rilevante importanza, seducendoli con risposte sempre pronte, in uno scenario in cui le tutele sono ancora poco consistenti. E tutto ciò non è un caso: gli assistenti virtuali basati sull’AI stanno prendendo piede in un periodo in cui molti bambini, bambine e adolescenti vivono un senso di isolamento senza precedenti. Sappiamo che la crescita è una fase “turbolenta”, di profondi mutamenti sia fisici che interiori. Rappresenta una fase di profonda crisi, in cui si è alla ricerca del proprio sé. Questo mi porta a dover necessariamente fare una breve digressione sulla definizione di sé in adolescenza: Il periodo adolescenziale si estende indicativamente dai 12 ai 24 anni ed è contraddistinto da scelte e comportamenti che aumentano la probabilità di condotte a rischio, con potenziali conseguenze quali maggiore mortalità, lesioni gravi e forme di violenza non intenzionale (Siegel, 2014). Questi comportamenti sono strettamente connessi ai cambiamenti nella struttura e nel funzionamento del cervello: comprenderli è fondamentale sia per intervenire efficacemente sul disagio adolescenziale sia per cogliere le basi neuropsicologiche di molte condizioni psicopatologiche della vita adulta e, più in generale, per interpretare il complesso mondo interno degli adolescenti. In questa fase si osserva un’accentuata sensibilità agli stimoli gratificanti e una limitata capacità di controllo degli impulsi, fenomeni sostenuti biologicamente dallo sviluppo asincrono tra i sistemi limbici della ricompensa e i sistemi di controllo esecutivo situati nella corteccia prefrontale (Spear, 2012). L’adolescenza rappresenta inoltre un momento critico per la costruzione dell’identità e del Sé: le trasformazioni corporee accelerano il distacco dalle identificazioni infantili legate alle figure genitoriali, che fino a quel momento avevano fornito supporto affettivo e una base per l’autostima.

Un ruolo centrale in questo processo è svolto dall’interazione sociale, in particolare con i pari. Le relazioni tra coetanei diventano un contesto privilegiato per sperimentare appartenenza, confronto e riconoscimento, elementi essenziali per l’elaborazione dell’identità personale e sociale. La ricerca ha evidenziato che la sensibilità al giudizio dei pari e il desiderio di accettazione sociale sono particolarmente intensi in adolescenza e possono sia favorire lo sviluppo di competenze socio-emotive e decisionali sia, in alcuni casi, incrementare la propensione a comportamenti rischiosi pur di mantenere l’inclusione nel gruppo. In questa dialettica tra appartenenza e individuazione si gioca una parte significativa della crescita psicologica in questa fase evolutiva. Ecco spiegato il perchè io ritenga che qualcosa sia andato storto. Non parliamo soltanto di un’innovazione tecnologica: ci troviamo davanti a una generazione che rischia di sostituire i rapporti umani con interazioni con macchine, affidando la capacità di comprendere e accogliere le emozioni agli algoritmi, e rivelando informazioni personali a realtà aziendali che non hanno come priorità la tutela dei giovani. La nostra indagine rivela che questi strumenti sono molto più diffusi di quanto si immagini e che il tempo per informare i ragazzi e le loro famiglie sui rischi concreti e documentati di tali tecnologie sta rapidamente diminuendo. Un’indagine riportata da Altroconsumo a luglio di questo’anno, ha messo in luce una condizione alquanto significativa: negli ultimi tre anni quasi quattro italiani su dieci (38%) hanno vissuto una condizione di disagio psicologico o emotivo. Tuttavia, il 68% di loro non ha chiesto supporto. Altrettanto significativi sono i dati riportati da un’indagine condotta da Male Allies, organizzazione britannica impegnata nella riduzione del divario di genere, ha coinvolto studenti di 37 scuole secondarie in Inghilterra, Scozia e Galles. Dai risultati emerge che oltre un terzo dei ragazzi sta valutando la possibilità di avere un amico virtuale basato sull’intelligenza artificiale. «I giovani utilizzano l’AI sempre più spesso come assistente personale, come supporto emotivo nei momenti difficili, come qualcuno da cui cercare conferme e, in alcuni casi, anche con un coinvolgimento romantico. Ciò che li attrae è la personalizzazione: sentono che l’AI li capisce, mentre i genitori no», si legge nel report. Un altro dato rilevante riguarda la percezione della realtà: il 53% degli adolescenti maschi dichiara di trovare il mondo online più appagante rispetto a quello reale. L’idea di avere un “compagno” sempre disponibile, e che si prende cura di te in ogni momento, pronto ad ascoltare, a dare consigli, ed anche in un certo qual modo a fare una terapia, rappresenta una realtà considerata (e sempre più consistente) nel mondo adolescenziale, ove il contatto umano sta perdendo progressivamente la sua importanza.

Il reale problema, che confonde in maniera costante gli utenti, è rappresentato dal fatto che questi chatbot sono programmati anche per simulare empatia ed emozioni umane. Ma il punto non è solo questo. Molti adolescenti usano l’AI come “migliore amico” oltre che “terapeuta” prêt-à-porter. Cosa sta succedendo? Non si tratta di un fenomeno marginale, e per quanto l’innovazione tecnologica abbia comportato significativi progressi in numerosi campi, un utilizzo sconsiderato, o piuttosto mi verrebbe da dire, incosciente, può comportare numerosi rischi. L’algoritmo utilizzato dai chatbot che simula empatia, è puramente un calcolo, non una vera emozione. Le risposte fornite sono giuste, corrette, proprio per il fatto che rappresentano un calcolo statisticamente appropriato, andando a confondere di fatto, il riconoscimento e la percezione stessa delle emozioni umane. Inoltre, altro aspetto da considerare, potrebbe essere il fatto che le risposte date da un chatbot, essendo “perfettamente” appropriate, gratificanti, e volte a non mostrare all’utente disappunto, possono portare i ragazzi a non allenare la capacità di gestire frustrazione e conflitti, attribuibili ovviamente a risposte umane. In ultimo, ma non per importanza, l’utilizzo dell’intelligenza artificiale in maniera continuativa e come sostituto delle amicizie, non può far altro che comportare un conseguente e crescente isolamento sociale. Considerando la rapidità con la quale le nuove tecnologie si stanno facendo strada all’interno delle nostre vite, una delle possibili soluzioni ma nel rendere le relazioni umane più desiderabili e facili da vivere. Ciò implica dedicare tempo autentico alla famiglia, promuovere sport e attività condivise, coltivare e proteggere le amicizie dal vivo. L’obiettivo reale è dunque far sì che l’IA diventi “emotivamente superflua”, creando un contesto fondato su ascolto reale e legami umani profondi.

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