È di questi giorni la notizia, o la conferma, che l’Italia continua nel suo trend negativo di nascite. Nel 2019 abbiamo superato il limite già raggiunto nel 2018, la fotografia dell’Istat è questa: nel 2019 solo 435mila nascite a fronte di 647mila decessi. La Stampa ha intitolato un suo articolo “Siamo un paese dalle culle vuote”. È un problema questo? Sì, e anche grosso, molto grosso. È come giocare una partita di calcio dove ogni 8 minuti perdi un giocatore per infortuni, hai solo 3 cambi disponibili e ti trovi al 90’ con 2 giocatori. Per quanto forte possano essere i tuoi giocatori la sconfitta è certa. Non solo, i giocatori che restano sono anche vecchi e quando manca la gioventù̀ scarseggia anche la gioia, la spensieratezza, la felicità, l’audacia, la forza e la speranza. In questo momento, come Italia, stiamo al minuto 75’ e stiamo perdendo 2-0 a causa dell’inferiorità̀ numerica.
Appena l’Istat ha condiviso i dati sono partiti a razzo tutta una serie di articolo e dichiarazioni degne di partecipare a Italian’s lie Got Talent, o volgarmente al festival delle balle spaziali. Titoloni e megafonate tipo «serve una seria politica di sostegno alle famiglie», «più welfare», «più soldi alle famiglie che fanno figli»” etc. Negli ultimi anni tutti i governi hanno stanziato soldi per “incentivare” a fare figli (che tristezza legare la nascita ai soldi, sic!), risorse per i comuni per l’apertura di asili nido e chi più ne ha più ne metta. Tutte queste politiche non porteranno a un bel nulla. Non è l’asilo sotto casa o qualche centinaio di euro a far nascere qualche bambino in più̀ o a far ripartire la curva della natalità̀. È da folli pensare di trattare l’argomento come se fosse un obiettivo aziendale raggiungibile tramite incentivazione economica. Non nego il fatto che in diverse parti d’Italia, compreso dove vivo, mancano i servizi essenziali di welfare e questo è sicuramente un problema, ma accusare lo Stato o la politica per la bassa natalità̀ significa non approfondire il tema. La prova di quello che sto scrivendo la trovate nei dati delle regioni italiane[1]. Nessuno può̀ dire che le politiche di welfare della Campania siano migliori dell’Emilia Romagna o del Piemonte, eppure la Campania ha un tasso di natalità̀ superiore alle due regioni del nord. Anche la Calabria è in vetta alla classifica per il tasso di natalità̀, ma certamente non ha una percentuale di asili nido migliore di altre regioni.
La natalità̀ è strettamente legata alla visione della vita, che nel tempo cambia per una serie di cause. Nei paesi ricchi non sempre avere e crescere figli rappresenta la felicità o lo scopo primario della vita di coppia. Non voglio entrare nel merito o nel giudizio ma sembra che sia l’evoluzione di una società̀ che ha spostato il focus della felicità altrove. Probabilmente vari fattori, oltre alla difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro, contribuiscono a questa mancata spinta demografica, compreso il fatto che siamo orientati alla ricerca di una ‘felicità’ personale che ci dispone poco al sacrificio che i figli richiedono, il fatto che i giovani percepiscono il futuro come una minaccia e non come una promessa, l’incapacità di costruire relazioni sentimentali stabili, il desiderio di impegnare tutte le proprie energie in un successo sociale percepito come irrinunciabile, l’entità dell’impegno economico necessario ad allevare i figli in una società come quella occidentale dove il consumismo fa apparire indispensabili aspetti che non lo sono, la paura di fallire nel difficile compito pedagogico che ci è richiesto. La forza di gestire i figli è diminuita perché́ ci stimola di più̀ investire le nostre energie altrove. Poi c’è da aggiungere anche un problema legato all’età̀ di quando decidiamo di avere figli che si sposta sempre più oltre i trent’anni e questo diminuisce le probabilità̀ di natalità e anche di avere più figli. Nessuna manifestazione pro-family può cambiare questo percorso sociale. Come è da folli pensare che con l’incentivazione economica si possano “produrre” figli, lo è altrettanto pensare che scendere in piazza con una bandiera a forma di famiglia aiuti ad aumentare la natalità.
La soluzione, adottata da più nazioni negli anni, si chiama volgarmente “immigrazione”. Immagino che ci sia qualcuno che darebbe immediatamente fuoco a quello che sto scrivendo, ma gli unici che potranno salvare la nostra nazione dalla morte per vecchiaia sono i nostri fratelli immigrati. Chi ha fatto diventare grande la Germania in economia e popolazione? La Germania non vanta cifre incredibili di natalità, tutt’altro, ma la ripresa demografica è ripartita, dal 1960 circa, grazie all’arrivo di persone straniere; oggi la Germania è il paese più popolato d’ Europa e anche il più ricco (PIL). E gli Stati Uniti D’America? Nel capire il valore dell’immigrazione gli americani sono stati tra i primi a legiferare sul diritto dello ius soli, mentre noi in Italia siamo legatissimi al nostro ius sanguinis che però non garantisce, in questo momento, molte nascite. Negli anni ‘70 le regioni del nord in Italia sviluppavano un alto tasso di natalità e sapete perché? Non certamente per le politiche di welfare ma per l’immigrazione interna, quelli del sud si spostavano al nord e spostavano anche la loro cultura di “fare figli”. Un altro dato molto interessante è la percentuale di stranieri nelle nazioni europee: Austria, Belgio e (di nuovo) Germania sono quelle a più alto tasso di stranieri, rispettivamente il 15%, il 12% e l’11%; l’Italia è in coda con un piccolo 8,5%[3]. È molto più urgente costruire una sana politica di accoglienza e integrazione che buttare milioni di euro in asili che mai saranno riempiti. I flussi migratori sono un’opportunità per far letteralmente rinascere (e nascere) la nostra nazione. I migranti che arrivano dall’Africa o dall’Asia hanno ancora come obiettivo di felicità avere famiglie numerose, cosa che è già diminuita dei nostri concittadini europei romeni di ultima generazione.
Il mercato economico può ripartire solo a fronte di una domanda importante e la domanda viene dalle persone, se mancano le persone si ferma ogni cosa. Certo forse si continueranno a vendere le ville sontuose al lago di Garda o qualche Ferrari, ma non saranno quelle a produrre posti di lavoro o benessere per la nostra società. I paesi ripartono quando gli appartamenti sono abitati, l’agricoltura è fiorente, quando ci sono persone disposte a lavorare nei campi (n.b. a lavorare, non a essere sfruttati), e potrei continuare all’infinito. In molti comuni italiani le scuole sono ancora in piedi grazie ai figli degli immigrati; senza di loro quelle scuole sarebbero stati ulteriori edifici abbandonati. La verdura che ancora riusciamo a comprare grazie ad un prezzo più o meno contenuto lo dobbiamo ai nostri amici migranti che lavorano nelle campagne del nostro stivale, troppo spesso sfruttati. I migranti sono la nostra salvezza!
Ps. Per quelli che pensano al terrorismo, alle mafie ricordo che restiamo ancora uno dei primi paesi al mondo per organizzazioni criminali che alimentano il terrorismo attraverso il mercato della droga; i migranti in questo caso o sono vittime o vengono assoldati dai mafiosi nostrani.
Daniele Giancarlo Piccinella
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