“Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del 1943”. È il libro di Anna Foa (professoressa di Storia Moderna presso l’Università di Roma “La Sapienza”) che sarà presentato domani, 5 febbraio, a Sezze. L’incontro è stato organizzato dall’associazione non profit Araba Fenice nell’ambito del percorso storico “Quanto tempo è passato… ti racconto la Storia” e portato avanti in collaborazione con il Centro Studi di storia contemporanea “Luigi Di Rosa”, fondato dalla stessa associazione. Il libro racconta di una casa appunto, al numero 13 di via Portico d’Ottavia. La stessa in cui ha vissuto l’autrice ma, soprattutto, quella da cui ebbe inizio, il 16 ottobre 1943, la razzia del ghetto di Roma, ad opera del capitano nazista Theodor Dannecker e dei suoi uomini. Una retata che portò alla morte di un migliaio di ebrei. Un edificio antico, pieno di cunicoli, terrazze e vie di fuga. Quel terribile giorno, le donne, con i bambini e gli anziani, non lasciarono le proprie abitazioni, convinte di poter essere immuni alla tragedia. Vennero, invece, spintonate sui camion. La maggior parte di loro fu spedita ad Auschwitz, da dove non fece ritorno. Pochi altri più fortunati, per lo più uomini fuggiti sui tetti, riuscirono a salvarsi. Recentemente, sullo stesso portone da cui uscirono all’alba di quel sabato d’inverno, è stata posta una pietra d’inciampo. Ricorda solo uno di quei deportati: una donna incinta di nove mesi. Una “microstoria”, come viene definita dalla stessa ideatrice del testo, fatta di persone e di cose, di gesti quotidiani, di voci, di sentimenti, di angoscia, di speranze, di disperazione, che caratterizzarono i mesi oscuri dell’occupazione tedesca della capitale, fino a giungere alla strage delle Fosse Ardeatine. Altro merito del libro è infatti quello di ricordare quanti ebrei furono arrestati per strada, in via Arenula, o nelle loro case, fra il 23 e il 24 marzo, subito dopo l’attentato di via Rasella, per rimpinguare il numero di quanti dovevano essere messi a morte per la rappresaglia ordinata da Hitler. Questa non fu preceduta da alcun avviso. La notizia dell’attentato fu anzi tenuta il più possibile segreta per procedere indisturbati all’eccidio del marzo 1944.La deportazione fu per certi versi casuale: mentre i tedeschi procedevano in modo scientifico, con fogli e liste, ubbidendo ad ordini indiscussi anche se feroci, i fascisti italiani collaborarono molto attivamente, alcuni per soldi, altri perché antisemiti. Agivano, certamente, nell’indifferenza di molti, l’inconsapevolezza delle stesse vittime e la complicità disinteressata di pochi. Uno degli esempi più tragici in questo senso è la figura di Celeste Di Porto, un’ebrea spia al soldo di bande criminali, cacciatrici di ebrei. Il padre, per la vergogna, si consegnò ai nazisti. La ragazza, nel 1947, venne condannata a 12 anni, di cui cinque condonati. Il saggio fa riflettere sulla mitezza delle sentenze, nel dopoguerra segnato dall’amnistia. Processi che cercarono la conciliazione omettendo la verità. L’incontro sarà coordinato da Luigi Cappelli, dottorando in Storia Contemporanea presso l’Università di Roma “Tor Vergata”. L’ingresso è libero.
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