Cavalcando l’onda della mia ultima pubblicazione, oggi voglio soffermarmi su un tema altrettanto attuale e controverso: la mercificazione del corpo femminile. Eh già, perché nell’era digitale ci troviamo spesso davanti a uno scenario in cui il corpo della donna viene trattato alla stregua di una merce, esposto, valutato e consumato come fosse un prodotto qualsiasi. Parliamo della maxi inchiesta su siti sessisti dal nome (che è già tutto un programma) “Phica” e “Mia moglie”. A colorare ulteriormente il già terribilmente grigio scenario, l’admin in una discussione sul forum scrisse che sarebbero state accettate anche immagini di minorenni, purchè con vestiti indosso. Agghiacciante. Ma facciamo un passo indietro per chi non conosce la vicenda. “Phica” e “Mia moglie” sono due forum di discussione nati su Facebook in cui gli utenti iscritti, pubblicavano foto di donne senza il loro consenso, private, manipolate, con commenti che dire sessisti è dire poco, con l’unico scopo di esporre e peggio umiliare pubblicamente le donne. La violenza online perciò, non rappresenta oggi solo un problema legale o tecnologico: è a tutti gli effetti la traduzione naturale di un problema psicologico e culturale. La non consensual image sharing rappresentareato previsto dall’art. 612-ter del codice penale: la diffusione non consensuale di materiale intimo, foto o video, condivisi con terzi senza il consenso della persona ritratta, ed in questi casi specifici se ne è fatto un considerevole abuso. Pensiamo al mondo di oggi: la nostra immagine social rappresenta un biglietto da visita, e la privazione e la diffusione non consensuale di tali immagini, può dare vita ad una sorta di trauma dell’identità, che in questo caso è un’identità digitale.
In questo senso, il concetto chiave è la presentazione del sé, che secondo Goffman, sociologo canadese, può essere paragonata ad una rappresentazione teatrale, ove ogni individuo, nell’ambito delle sue interazioni quotidiane, “mette in scena” un sé di fronte ad un pubblico ossia gli altri, ma lo fa consapevolmente, cercando di controllare l’impressione che gli altri possono avere. Se questa immagine viene presentata al pubblico senza consenso, le impressioni degli altri sfuggono al controllo. Ma torniamo alla vicenda e chiamiamo la faccenda con il suo vero nome. Il termine “revengeporn”, letteralmente “vendetta porno”, è ormai diffuso, consueto,anche se talvolta resta improprio e fuorviante: non c’è nulla di “porno”, perché manca il consenso, e parlare di “vendetta” sposta l’attenzione dalla violenza subita alla dinamica di coppia. È vero, spesso tutto nasce dopo la fine di una relazione, come gesto punitivo, ma non sempre: a volte dietro ci sono ricatti, umiliazioni o semplice leggerezza. In ogni caso, si tratta di una violazione grave della dignità e della libertà personale.E le conseguenze psicologiche ad esso associate, purtroppo, sono devastanti. Uno studio pubblicato su PubMed nel 2023 ha evidenziato come le vittime di violenza digitale riportino livelli elevati di ansia, depressione, vergogna e bassa autostima (Fernandes et al., 2023). In molte situazioni emerge un quadro di disturbo post-traumatico da stress (PTSD), accompagnato da pensieri suicidari, come documentato da Samantha Bates in una ricerca qualitativa condotta su donne che hanno subito la diffusione di materiale intimo senza consenso (Bates, 2017).
A questi disturbi si aggiungono difficoltà a fidarsi degli altri, il conseguente isolamento sociale e paura del giudizio, elementi che incidono in maniera prepotente sulla qualità della vita di queste donne e sulle relazioni affettive, innescando la sensazione di vivere “un’eterna esposizione”, con pensieri intrusivi, stress costante e il timore che il materiale possa riemergere in qualsiasi momento. Per non parlare del fatto che, chi diffonde o commenta immagini con uno spiccato disimpegno morale, o più semplicemente spinto dal bisogno di appartenenza ad un dato gruppo, o ancora chi semplicemente resta in disparte a guardare, con la magra illusione di non essere partecipe dell’atto, (della serie, “non lo sto facendo davvero, sto solo guardando,) ma che in realtà appartiene ad una categoria precisa, specifica, che in psicologia viene definita “voyeurismo digitale” in parole povere coloro i quali provano gusto nel guardare, rappresentano un chiaro sintomo di una cultura ancora dominata dal potere che il sessismo genera. Allora, forse, la vera domanda da porsi è questa: “cosa stiamo insegnando (o non insegnando) alle nuove generazioni sul rispetto e sul consenso? L’educazione al rispetto, della propria e dell’altrui libertà può significare educare alla dignità, l’alfabetizzazione emotiva, che attraverso la famiglia, le scuole, e anche gli stessi mass media, può contribuire a cambiare le sorti ma anche la stessa, e ormai stanca narrazione.


