Negli ultimi anni si sono verificati atti di una crudeltà indicibile, irripetibile, dall’efferatezza tanto inaudita quanto difficile da spiegare. Il femminicidio trova oggi collocazione autonoma all’interno del Codice Penale: non più un reato incluso in altre fattispecie, ma un crimine definito in sé. La vera svolta è proprio questa, il riconoscimento della sua autonomia giuridica. Il 23 luglio 2025 resterà una data memorabile: il Senato, all’unanimità, ha approvato il disegno di legge che stabilisce come il femminicidio debba essere riconosciuto per quello che è, senza essere ridotto a una categoria minore. Prima di questa riforma, il sistema penale non era del tutto privo di strumenti, ma si reggeva su un insieme di norme sparse, un vero e proprio “arcipelago” legislativo, riconducibili a fattispecie più ampie, come la violenza domestica, inserita in una macrocategoria.
Tra le principali misure già in vigore si ricordano:
- Legge 19 luglio 2019, n. 69 (“Codice Rosso”), che ha introdotto modifiche al codice penale e di procedura penale per rafforzare la tutela delle vittime di violenza domestica e di genere;
- Decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito in legge, che aveva già previsto interventi per prevenire e reprimere la violenza domestica e di genere.
L’esigenza di andare oltre è stata inevitabile e pressante: femminicidio e violenza domestica non sono sinonimi, né concetti sovrapponibili. Per questo, anche sul piano normativo, non possono essere trattati come se lo fossero. Ognuno richiede una definizione e una categoria giuridica specifica. La stessa storia del termine “femminicidio” è complessa. La parola (dall’inglese femicide) fu introdotta nel 1992 dalla criminologa femminista Diana H. Russell, nel saggio Femicide: The Politics of Woman Killing, per indicare l’uccisione di donne da parte di uomini motivata dal fatto stesso che le vittime siano donne. Nella definizione di Russell, il femminicidio va oltre la semplice nozione giuridica di omicidio: comprende anche quei casi in cui la morte di una donna deriva da atteggiamenti, comportamenti o pratiche sociali radicati nella misoginia. Secondo Marcela Lagarde, accademica e antropologa messicana, il femminicidio è “la forma estrema della violenza di genere contro le donne”, conseguenza della violazione dei loro diritti umani sia nella sfera pubblica sia in quella privata. Questa violenza si manifesta in molteplici forme, fisica, psicologica, sessuale, economica, lavorativa, familiare, comunitaria e istituzionale, ed è spesso accompagnata dall’impunità, tanto sul piano sociale quanto da parte dello Stato. Tali condizioni espongono le donne a una condizione di vulnerabilità e rischio che può culminare non solo nell’uccisione o nel tentativo di uccisione, ma anche in altre forme di morte violenta, come suicidi, incidenti o sofferenze fisiche e psichiche evitabili, provocate dall’insicurezza, dal disinteresse istituzionale e dall’esclusione dai processi di sviluppo e partecipazione democratica.
Il femminicidio si configura, dunque, come l’atto estremo e conclusivo all’interno di un ciclo di violenza reiterata, e in quanto tale rappresenta la massima espressione del potere subordinante esercitato dall’uomo nei confronti della donna. Non si tratta di un evento isolato, ma del culmine di una progressiva erosione dell’identità e della libertà femminile, che trova la sua radice in modelli culturali e sociali profondamente radicati e difficili da estirpare. In questa prospettiva, si crea un inevitabile ponte tra il piano concettuale, psicologico e sociologico del femminicidio e la sua trasposizione sul piano giuridico: il diritto penale interviene così a riconoscere, tipizzare e punire una realtà che non è soltanto criminale, ma anche espressione di un sistema di potere e diseguaglianza strutturale. La fattispecie penale diventa quindi non soltanto uno strumento repressivo, ma anche un segnale simbolico e normativo, volto a sottolineare il valore universale della dignità e della vita delle donne. Tuttavia, se la legge rappresenta un passaggio necessario, essa da sola non può essere sufficiente ad invertire una mentalità secolare. Occorre affiancare all’intervento giuridico un percorso educativo e culturale di lungo respiro, capace di incidere sulle rappresentazioni sociali e sugli stereotipi di genere. Solo un’educazione alla parità, fondata sul rispetto reciproco e sulla decostruzione dei modelli patriarcali, può costituire un autentico deterrente e prevenire la degenerazione della violenza fino alla sua forma più estrema.
In tal senso, le parole di Simone Weil acquistano una pregnanza particolare: «La nozione di oppressione è, in fondo, una stupidaggine (…) e a maggior ragione la nozione di classe oppressiva. Si può solo parlare di una struttura oppressiva della società. Questa struttura non genererà mai automaticamente il suo contrario ma solo l’ideale del suo contrario». Proprio a partire da questa riflessione emerge la consapevolezza che il cambiamento non può scaturire automaticamente dalla mera esistenza della legge, ma necessita di un impegno collettivo volto a trasformare le strutture stesse della società. Il contrasto al femminicidio, quindi, non si esaurisce nell’ambito penale, ma deve tradursi in una responsabilità condivisa: delle istituzioni, della scuola, dei media e di ciascun individuo. Solo così sarà possibile costruire un tessuto sociale realmente capace di prevenire la violenza e di garantire alle donne non soltanto la protezione formale dei loro diritti, ma anche la piena e concreta realizzazione della propria libertà.


