Mi pongo spesso una domanda: “Si può essere amici dei propri figli”? Domanda banale, scontata? Non saprei. È cambiato, è cambiato tutto. Davvero. Il cambiamento è l’unica costante della vita. Un celebre aforisma di Eraclito così recita: “Pántarheî o panta reiche significa “tutto scorre“. È vero, tutto scorre, ma sono sempre positivi questi cambiamenti? La famiglia ha vissuto notevoli cambiamenti, sostanziali, rivoluzionari, alcuni estremamente positivi, essenziali, altri (forse) meno. In realtà penso che questa domanda riecheggi (oltre che in me) sempre più spesso nella società contemporanea, riflettendo pertanto una trasformazione significativa nelle dinamiche genitoriali e nel rapporto tra le generazioni. Le trasformazioni in atto sembrano spingere i genitori a interrogarsi su nuovi modelli di relazione con i figli, mettendo in discussione i ruoli tradizionali, (che per certi versi va bene). Vediamo un attimo il dizionario che dice. Partendo dall’etimologia del termine “amicizia”, la parola deriva dal latino amicus affine ad amare, e designa una relazione fondata su vincoli di affetto, fiducia e condivisione reciproca. La parola genitore, dal canto suo, deriva anch’essa dal latino genĭtor-oris, participio passato di gignĕre («generare»), e significa letteralmente «colui che genera o ha generato». Tutto molto bello, ma è evidente che i termini amico e genitore non siano sinonimi né sovrapponibili. La loro natura etimologica e il significato che hanno assunto nel tempo delineano ruoli distinti: l’uno fondato sulla parità e la reciprocità, l’altro legato a un rapporto intrinsecamente asimmetrico, incentrato sulla responsabilità e sulla guida. E come non sono sovrapponibili a livello etimologico, possono esserlo nei ruoli?
Questa distinzione diventa particolarmente interessante quando si analizzano le dinamiche familiari, dove ogni individuo appartiene a diversi sottosistemi (coniugale, genitoriale, fraterno). In ciascuno di essi, egli assume gradi di potere differenti e acquisisce competenze relazionali specifiche. L’organizzazione in sottosistemi consente di mantenere l’identità del singolo, garantendo al tempo stesso lo sviluppo delle capacità interpersonali. Un elemento fondamentale in questo equilibrio sono i confini, che stabiliscono chi partecipa e con quali modalità a un determinato sottosistema. Affinché una famiglia funzioni in modo armonico, questi confini devono essere chiari e definiti. Tuttavia, quando i confini si confondono e diventano eccessivamente fluidi, labili, si crea un coinvolgimento estremo tra i membri, noto come invischiamento. È altrettanto vero però che per il versante opposto, confini troppo rigidi ostacolano la comunicazione tra sottosistemi, causando disimpegno e limitando la cooperazione familiare. Queste dinamiche sottolineano la complessità del ruolo genitoriale, che non può essere equiparato a quello di un amico senza rischiare di alterare l’equilibrio dei sottosistemi familiari. È pur vero che al giorno d’oggi la rappresentazione dello scenario quotidiano, sembrerebbe quasi “imporre” una situazione diametralmente opposta, ove appunto i due termini, sembrano risultare sovrapposti, ed i confini tra ruoli, poco definiti.
Le trame familiari, così come un libro, delineano descrivono, in maniera molto chiara, quella che sarà la personalità di un individuo. Le relazioni, dunque, rappresentano il punto focale. E allora perché si verificano queste “invasioni di campo?”Una delle possibili risposte potrebbe risiedere nel senso di colpa. La frenesia moderna, la rapidità con cui tutto accade, ha inevitabilmente causato un “accorciamento” dei tempi, ma anche un necessario senso di perenne insoddisfazione, che spinge le persone alla continua ed estenuante ricerca di un benessere ideale, che non può realmente mai dirsi raggiunto. Questa continua ricerca di benessere, tramandata debitamente ai figli del nuovo millennio, inevitabilmente crea sentimenti di inadeguatezza ed angoscia, che a “tutti i costi” devono essere soddisfatti, ricompattati, o anche addirittura soppressi dai genitori che in un certo qual modo, pensando di “dare tutto” ai propri figli, creando in realtà ampie voragini nella costruzione di un proprio senso di sé, in grado di gestire anche le frustrazioni che la vita offre. Se da un lato dunque si assiste ad un rovesciamento in senso positivo delle dinamiche familiari, ove i genitori hanno instaurato rapporti di dialogo, fiducia ed ascolto nei confronti e per i propri figli, dall’altro lato questo rovesciamento di ruoli ha creato non poche incertezze nella psiche degli stessi figli, che di fronte non trovano più la sicurezza di avere “due capitani” al timone della vita, bensì due coetanei, amichevoli, e forse, da prendere poco sul serio. Dunque, si può essere amici dei propri figli?
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