BEAU HA PAURA
Regia: Ari Aster
Genere: Grottesco, drammatico
Interpreti: Joaquin Phoenix (Beau Wessermann), Armen Nahapetian (Beau da giovane), James Cvetkovski (Beau da bambino), Patti LuPone (Mona Wessermann), Zoe Lister-Jones (Mona da giovane), Amy Ryan (Grace), Nathan Lane (Roger), Kylie Rogers (Toni), Denis Ménochet, (Jeeves), Parker Posey (Elaine Bray), Julia Antonelli (Elaine da giovane), Stephen McKinley Henderson (dott. Jeremy Friel)
Paese/Anno: U.S.A., Canada, Finlandia/2023
Durata: 179′
Dove vederlo: al cinema dal 27 aprile
7,5/10
Quando un regista di soli 36 anni riesce a mettere in fila un debutto sepolcrale come “Hereditary” e un bis del calibro di quel fulgido folk-horror che è “Midsommar” – e, per giunta, nel corso di soli due anni -, è del tutto normale che da Ari Aster ci si aspetti sempre qualcosa. Qualcosa in più. Qualcosa che non lasci indifferenti, se non altro. E, inutile girarci intorno, al cospetto di “Beau ha paura” non possiamo proprio restare indifferenti.
Bisogna essere onesti: ideare, scrivere e girare un film così non è da tutti. Sia perché richiede uno sforzo immaginifico di un certo spessore, sia perché non sarà mai ricevuto da pubblico e critica con la stessa oliata benevolenza con la quale ci si confronta con titoli più diretti, meno (in un certo senso) sofisticati. Ci vuole coraggio, insomma. E molto. E difficilmente si vedono in giro film come “Beau ha paura”.
Quindi, che film è “Beau ha paura”? Un film che racconta la storia di un uomo – un Joaquin Phoenix dallo sguardo deliziosamente sperduto – terrorizzato da tutto e tutti, già dal momento della sua nascita, visto che un medico sbadato se l’è lasciato scivolare di mano – e, causalmente, anche prima, visto che il padre sembra essere morto a causa di un difetto cardiaco nel momento stesso del concepimento del figlio; un uomo che vive in un mondo chiuso, in un quartiere violento, popolato da assassini, tossici e individui quasi più fantastici che umani; un uomo che segue abitualmente sedute confessorie da un terapeuta; un uomo che, più di ogni altra cosa, pare aver gran timore della propria madre.
“Beau ha paura” esordisce grazie a una prima mezz’ora davvero esplosiva: gli eventi che precedono il viaggio del protagonista sono narrati da Aster con una lucidità inscalfibile, tra campi totali col fiato sospeso e inquadrature sghembe che farebbero rizzare sulla poltrona perfino Shyamalan. Poi inizia l’odissea di Beau e il regista di New York si libera di ogni legaccio con la realtà, giocando crudelmente, accumulando una carrellata di rapsodiche situazioni in cui Beau vive, rivive, si rivede, ritrova e scopre pezzi di sé e del suo passato: lì, spaventato e sperduto in un mondo vastissimo, infinito e in subbuglio, nel quale la madre resta uccisa e decapitata per un incidente domestico, dove famiglie apparentemente felici vivono in una perenne atmosfera mortifera, in cui reduci di guerra hanno perduto il senno e vengono sguinzagliati come novelli cosplayer di Rambo, in cui una carovana di hippie contemporanei allestisce spettacoli teatrali nel folto di boschi oscuri, in cui perfino la ragazzina di cui Beau era innamorato e che incontra dopo anni gli chiede di fare sesso nella stessa villa dove si è appena svolto il funerale della madre morta, quasi fosse una comparsata di un porno dozzinale. E tutto, corroborato da una sottile comicità che contrasta a meraviglia con la reale struttura grottesca della pellicola.
Beau è un personaggio alla deriva e Aster utilizza i propri incubi, forse ingigantendoli, ma sbattendoli deliberatamente in faccia a noi tutti, che abbiamo ancora conficcate nel cervello e stampate davanti agli occhi le paure, le nevrosi e le certezze venute meno per colpa della pandemia. Quando anche noi, per un bel po’ di tempo, eravamo(?) proprio come Beau.
A cosa serve, dunque, un film come “Beau ha paura”? Serve a ricordarci che gli incubi di Aster sono anche i nostri, quelli di una società che finge di avere tutto sotto controllo, ma continua a vivere una quotidianità disillusa, stremata da violenze e psicofarmaci, imprevedibile e non all’altezza delle aspettative, soggiogati da uno sterile gioco al confronto e al massacro delle nostre identità. E, come nell’epilogo, noi tutti e Beau ci ritroviamo sempre sul patibolo, giudicati e condannati, provando a chiedere scusa e cercando vane giustificazioni come se dovessimo davvero rendere conto a chi altri. Per poi affondare, senza speranza. Preferendo affondare, piuttosto che continuare a subire un tale supplizio. E poi, siate sinceri, chi non ha mai avuto timore anche per un solo istante che ci venissero rubate le chiavi di casa, ancora attaccate alla serratura?
Stefano Colagiovanni
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