SEZZE, l’odissea di Marina, in fuga da Kiev e dalla furia della guerra
Mentre mi preparo a scrivere questa intervista, la primavera è alle porte. Eppure il cielo è grigio, l’aria grassa di pioggia e la guerra in Ucraina è iniziata da quasi un mese.
Solo qualche giorno fa, il mio amico Marco mi ha presentato Marina, la sua nuova compagna. I due si sono conosciuti anni fa in Cina, si frequentano dallo scorso agosto e ora vivono a casa di Marco. Una convivenza accelerata per una questione di sopravvivenza: Marina è ucraina, vive a Kiev e il 25 febbraio scorso ha dovuto abbandonare il suo appartamento e quasi tutti i suoi averi per fuggire dall’avanzata dell’esercito russo. Quando le chiedo se può raccontarmi la sua storia, non esita nemmeno per un istante.
Ci incontriamo a casa di Marco, dove c’è silenzio e nessun imbarazzo. Seduti su un largo divano, Marina e Marco si preparano a rivivere quei giorni impetuosi. Le fiamme nel camino crepitano in una danza anarchica. Marina sospira e scandisce le parole: «Quando Putin fece il suo primo discorso (lunedì 21 febbraio), tutti capimmo che qualcosa stava accadendo. Non solo noi ucraini, perché era chiaro che anche la percezione degli altri Paesi era cambiata: gli occhi di tutti erano puntati sull’esercito russo al confine. Quella notte nessuno riuscì a dormire. La mattina seguente chiamai i miei famigliari e gli amici più cari. Nel frattempo, mi ero già sentita telefonicamente con Marco. Avendo la possibilità di poter lavorare anche a distanza, avevamo deciso che sarebbe stato saggio comprare il biglietto aereo e venire qui. Ma il giorno stesso (giovedì 24 febbraio) capii che era orami impossibile volare. La guerra era appena iniziata».
In un alternarsi di notizie nefaste e messa alla prova dall’irreale capovolgimento della sua quotidianità, Marina racconta con delicata pacatezza quelle prime ore di agitazione: «Quella mattina stessa, mia sorella lasciò Kiev con la sua famiglia, verso una piccola cittadina a due ore dalla capitale, chiedendomi di andare con loro. Decisi di non seguirli, perchè sapevo che se fossi andata, sarei rimasta bloccata. Quindi rimasi a casa un altro giorno. La mattina del 25 febbraio corsi in stazione per prendere il treno, ma era diventato già molto difficile lasciare Kiev e andare verso ovest. Ci segnalarono treni speciali per l’evacuazione, ma non era stato predisposto alcun programma, anche per evitare che i treni stessi venissero presi d’assalto senza controllo: bisognava solo andare in stazione e aspettare, senza alcuna sicurezza. I treni erano scarsamente illuminati, le luci venivano tenute spente per evitare che i convogli fossero visti e attaccati. Avevamo solo tanta voglia di scappare, così tutti spingevano, nel caos dettato dalla paura di non farcela. Alcuni si comportavano come animali, le donne urlavano, i bambini piangevano e tutti si accalcavano. Era difficilissimo salire, in molti si ammassavano già nei primi vagoni ed era quasi impossibile vedere oltre. Poi, spingendo a mia volta e con tanta fortuna, sono riuscita a trovare uno spiraglio per salire a bordo. Quel treno che avrebbe dovuto impiegare sei ore per arrivare a destinazione, ne impiegò quattordici. Nei posti a sedere da quattro, si accalcavano in otto. Si faceva fatica perfino a respirare».
Nel frattempo, Marco inizia il suo viaggio verso il confine tra la Polonia e l’Ucraina, provando a rimanere il più possibile in contatto con Marina. «Ci eravamo messi d’accordo che, qualsiasi cosa sarebbe successa, Marina sarebbe dovuta andare verso ovest, il più lontano possibile dalle zone a rischio». Un viaggio, quello di Marina, affatto facile, intrapreso da una moltitudine di persone in fuga, spinte dall’unico desiderio di sopravvivere, anche a scapito della propria integrità morale.
Così prosegue Marina: «Molti uomini stranieri (solo gli ucraini dai 16 ai 60 anni sono chiamati al fronte), spingevano via senza distinzione donne e bambini e i soldati a volte sparavano per aria anche per mettere ordine. La situazione era incandescente, sembravamo tutti contro tutti».
La mattina del 26 febbraio, al termine della prima parte di questa odissea civile, Marina raggiunge Leopoli (città a circa 70 chilometri dal confine con la Polonia). Dopo quattordici ore di viaggio, era necessario accaparrarsi un posto sul primo treno disponibile verso la Polonia. Ma, con il passare delle ore, tutte le partenze venivano rinviate, alcune cancellate. Con le banchine sempre più affollate e la disperazione montante come una marea nera, era necessario trovare una nuova via di fuga.
«Insieme ad altre donne ucraine decisi di raggiungere il confine in un altro modo. Prendemmo un taxi, ma il tassista ci accompagnò fino a un certo punto: da lì avremmo dovuto camminare per 45 chilometri, già a pezzi sia fisicamente che emotivamente, impaurite, affamate e con una temperatura spesso vicina ai meno tre gradi. Ero sicura che non ci sarei riuscita. Così presi un altro taxi, tornai a a Leopoli, aspettando disperatamente un altro treno per passare il confine. Sulle scale, sulle banchine, tra i corridoi, c’era una gran quantità di gente ad aspettare come me da tutto il giorno. C’era un fiume di persone che attraversava i binari, così decisi di accodarmi, ma un uomo mi spinse, strattonando la valigia con i pochi effetti che avevo con me, intimandomi chiaramente di non provarci nemmeno, offendendomi con i peggiori epiteti. C’erano sempre alcuni uomini che facevano valere la loro forza e nessuno sembrava accorgersi di quanto stesse succedendo. I soldati di pattuglia alzavano la voce come parlando nel vuoto, accusando le donne di fuggire con codardia, lasciando i mariti e gli altri famigliari al fronte soli a morire. Quello è stato il momento della disperazione: ho iniziato a piangere, ho chiamato Marco e gli detto che non avevo idea di come passare il confine».
Dopo un’altra giornata di raggelante immobilità, la notte del 27 febbraio Marina viene a conoscenza della possibilità di salire su un treno per Užhorod, una cittadina nella parte sud-ovest dell’Ucraina, confinante con Slovacchia e Ungheria. In molti forzavano ancora per trovare una via di fuga verso il confine polacco. La sera del 26 febbraio, Marco raggiunge il confine con la Polonia. I rifugiati sciamavano in gran numero, ma a nessuno, dall’altra parte, era consentito di avvicinarsi e non si poteva andare oltre Medyka, città in prossimità del confine stesso.
Scartata la possibilità di spostarsi verso la Polonia, Marina decide di salire su un treno per Užhorod, in tabellone alle 5:40 della mattina del 27 febbraio. Acquista il biglietto e aspetta il suo turno, ma la partenza viene posticipata alle 7:15, poi ancora alle 8:15 e, infine, annullata del tutto. Il panico cresce nuovamente, la stanchezza è tanta da intorpidire i sensi. Quasi senza rendersene conto, il colpo di coda della provvidenza: fuori dalla stazione c’è un bus per Užhorod.
«Non c’ho pensato su due volte: sono salita sul bus insieme ad altre donne e bambini, riuscendo ad avvertire Marco. Ci hanno chiesto un prezzo esorbitante per pagare il biglietto, circa 120 euro per una corsa che, normalmente, avremmo pagato molto molto meno (in Ucraina la pensione media è all’incirca di 150 euro). Raggiunta Užhorod, presi un altro bus, così da avvicinarmi al confine slovacco. File interminabili di auto avanzano con una lentezza disarmante, ma fortunatamente l’evacuazione era stata organizzata da alcuni volontari, che ci accolsero con acqua e cibo; in molti pregavano, consolandosi a vicenda».
Nel frattempo, raggiunto il nuovo ideale punto di incontro al confine con la Slovacchia, Marco attende con impazienza che Marina consumi l’ultima, interminabile parte del suo viaggio. Il bus scortato dai volontari impiegherà un giorno intero per macinare quei chilometri ormai cannibalizzati con gli occhi. Alle 16 del 28 febbraio, Marina e Marco possono finalmente abbracciarsi. L’1 marzo sono a casa. Tra Sezze e Kiev sembrano esserci mondi di distanza, eppure condividiamo lo stesso orizzonte.
Soppesando le parole con una lucidità adamantina, Marina sposta lo sguardo da Marco a me e viceversa, mentre per un istante ammorbidisce con un lieve sorriso i lineamenti del volto tirato dai ricordi: «In Ucraina non conosco nessuno favorevole a questo intervento di Putin. Il 99% della popolazione di Kherson, la mia città natale, parla russo; i miei nonni vengono dalla Russia, molti hanno parenti in Russia. Io parlo russo a Kiev e in molte altre parti e nessuno mi ha mai detto nulla, nessuno mi ha mai ostacolato per questo. Ma né io, né altri componenti della mia famiglia o amici che hanno legami con la Russia vogliamo diventare a tutti gli effetti russi. Io sono ucraina.
In questi giorni c’è un’infinta mole di notizie spesso veicolate dai media russi, sul fatto che gli ucraini sono nazionalisti o addirittura nazisti, che non vogliono che la gente venga aiutata. Bisogna stare attenti a interpretare queste notizie. Penso alla mia città, Kherson, ormai invivibile, occupata dall’esercito russo fin da subito: lì, ogni giorno, la popolazione protesta in modo pacifico, mentre l’esercito russo ostacola addirittura la formazione dei corridoi umanitari autorizzati. So solo che oggi per la maggior parte dei cittadini ucraini non esistono ragioni politiche al mondo, non importa… l’unica cosa che importa è che stanno uccidendo centinaia di persone, tutte vittime di una guerra che non vuole nessuno. Ci sono persone che ora vivono in una situazione pessima, nascondendosi nelle cantine, senza cibo o acqua e certezza di sopravvivere, non solo perché non vogliono lasciare la loro terra, come i miei genitori a Kherson, ma anche perché non ci riescono. Ora tutti odiano Putin e Putin è il leader della Russia, quindi si inaspriscono i rapporti con i cittadini russi. Ci si chiede perché il popolo russo non intervenga: hanno paura di essere arrestati, ma noi ucraini veniamo uccisi! Morte e odio, ecco cosa porta la guerra. Siamo un pretesto tra la Russia e chi le si oppone».
Dopo una breve pausa, Marco si rivolge a me, fissando negli occhi Marina. Mi svela di non avere ancora trovato il coraggio di chiederle cosa pensa di trovare nella sua terra, una volta che la guerra avrà esaurito la sua furia. Marina sorride con dolcezza e si perde per un istante ancora tra le sorde fiamme del focolare.
Stefano Colagiovanni