Iniziamo? Partiamo subito a gamba tesa, parlando di un argomento che è ormai quasi all’ordine del giorno, ma con un tono decisamente differente. Parliamo di Chiara Poggi, parliamo di Garlasco. Ma non ne parliamo nel modo che ormai tutti conoscono, e non solo perché questo caso “esiste” da ormai 18 anni, ma in una maniera diversa e da un punto di vista diverso. La vicenda è apparsa sin da subito articolata: la Corte di Cassazione nel 2013 ha annullato la sentenza di assoluzione, ordinando un nuovo processo d’Appello. Al termine di quest’ultimo, nel 2014, Alberto Stasi è stato condannato a 16 anni di reclusione, senza l’aggravante della crudeltà. Dal 2015 Stasi è recluso nel carcere di Bollate e dal 2023 può uscire solo per recarsi a lavoro. La riapertura del caso ha rimescolato le carte, nuovamente, di un già conturbato e particolare caso dai contorni poco chiari, quando nuovi esami hanno confermato la presenza di dna non appartenente a Stasi sotto le unghie di Chiara Poggi, ed appartenente ad Andrea Sempio, amico del fratello della vittima, e ad oggi unico “nuovo” indagato. Nel corso di questi nuovi accertamenti, su una garza utilizzata per prelevare materiale genetico dalla bocca di Chiara Poggi è stato rilevato dna maschile. Da qui prende forma un’ipotesi ancora tutta da verificare: la possibile presenza, finora mai individuata, di una terza persona sulla scena del delitto. Gli inquirenti stanno ora cercando di stabilire se quel dna parziale sia il risultato di una contaminazione dovuta a chi operò sul corpo della giovane oppure se indichi l’esistenza di un soggetto ignoto che potrebbe aver avuto un ruolo diretto nel crimine.
Tutto ciò è dunque un intreccio ove l’indagine “alternativa” la quale esplora la possibilità di un colpevole diverso dall’allora fidanzato di Chiara Poggi, ha come evidenziato, riaperto il caso mettendo in discussione la versione ufficiale grazie a consulenze tecniche presentate dalla difesa di Stasi. Indipendentemente dalle indagini, che spettano agli organi di competenza, e dai giudizi che possono essere espressi in una circostanza tanto delicata quanto drammatica, capace di sconvolgere la vita di numerose famiglie, l’accusa di omicidio rappresenta uno degli eventi più traumatici e destabilizzanti che un individuo possa affrontare. Al di là della questione legale, il solo fatto di essere coinvolti in un’indagine per un reato così grave può generare conseguenze profonde sia sul piano personale che sociale. Un’accusa di omicidio può segnare per sempre la vita di una persona, ridefinendone l’identità e il modo in cui viene percepita dalla società. A questo punto è inevitabile porsi alcune domande: e se nel corso di questo lungo percorso fossero stati commessi errori? Analizzando dunque la questione con un focus esterno, cercando di trascendere le opinioni ed i giudizi, da un punto di vista psicologico il fatto di vivere con un’accusa di omicidio è paragonabile ad un fardello che l’accusato porta con sé per tutta la sua vita, e questo fenomeno prende il nome di stigma sociale.
Il termine stigma deriva dal greco antico “stigma”, che significava “puntura” o “marchio”. Nell’antica Grecia, indicava un segno inciso a fuoco sulla pelle, in particolare sulla fronte, per identificare pubblicamente schiavi fuggitivi o criminali, con lo scopo di renderli riconoscibili e facilitarne l’esclusione sociale. Lo stigma associato a una condanna per omicidio rappresenta un carico sociale e psicologico estremamente pesante per l’individuo, anche dopo l’espiazione della pena. Questa non è, in fondo, una vera e propria marchiatura a fuoco? Lo stigma si configura come un’etichetta sociale negativa che tende a cristallizzare l’identità della persona, riducendola esclusivamente all’atto commesso, a prescindere da eventuali percorsi di cambiamento, riabilitazione o rielaborazione personale. Lo diceva già Erving Goffman: lo stigma nasce da una frattura tra l’identità sociale virtuale,ovvero ciò che la società si aspetta da un individuo, e l’identità reale, generando così una percezione profondamente distorta di chi ha commesso un reato. Questo meccanismo porta a forme persistenti di esclusione, sfiducia e discriminazione che, a loro volta, alimentano dinamiche di auto-isolamento e impediscono il pieno reinserimento sociale e lavorativo. Ne deriva una vera e propria “seconda pena”, non sancita dal sistema giuridico ma inflitta dalla società stessa, che continua a gravare sull’individuo ben oltre la fine della condanna.
In questo senso, anche in un caso per così dire “infinito” come quello di Garlasco, ove Chiara Poggi sembra non poter “riposare” mai, il peso dello stigma derivante da una condanna per omicidio non si esaurisce nella sentenza: diventa una condizione permanente, capace di segnare la vita della persona in modo indelebile. L’etichetta sociale che accompagna chi è stato giudicato colpevole non solo ostacola la possibilità di reinserirsi, ma spesso alimenta un circolo vizioso in cui la marginalizzazione e l’isolamento rendono quasi impossibile ricostruire relazioni significative e una nuova progettualità di vita. Superare questa condizione richiede un impegno autentico: è necessario un cambiamento culturale profondo, capace di distinguere la persona dal reato e di aprire spazi reali di riabilitazione. Politiche attive di sostegno, percorsi di accompagnamento psicologico e sociale, ma soprattutto un impegno collettivo a scardinare la logica della “condanna perpetua”.




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