“BABYLON”, l’eterna illusione hollywoodiana di Damien Chazelle

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BABYLON

Regia: Damien Chazelle
Genere: Drammatico, commedia
Interpreti: Margot Robbie (Nellie LaRoy), Diego Calva (Manuel “Manny” Torres), Brad Pitt (Jack Conrad), Jovan Adepo (Sidney Palmer), Li Jun Li (Fay Zhu), Jean Smart (Elinor St. John), Eric Roberts (Robert Roy), Olivia Hamilton (Ruth Adler), Tobey Maguire (James McKay), Samara Weaving (Constance Moore), Lukas Haas (George Munn), Max Minghella (Irving Thalberg), Katherine Waterston (Ruth Azner), Flea (Bob Levine), Jeff Garlin (Don Wallach), Phoebe Tonkin (Jane Thornton)
Paese/Anno: U.S.A./2022
Durata: 189′
Dove vederlo: al cinema dal 19 gennaio

 

 

9/10

 

 

Ce ne sarebbero un’infinità di aggettivi per descrivere Babylon, nuovo film di Damien Chazelle – mano e mente dietro Whiplash, La La Land e First man – e, probabilmente, non sarebbero sufficienti a esaurire quell’impeto di volerlo per forza etichettare o limitare dentro uno schema logico di una definizione che sentiamo montare dentro, quasi come una necessità fisiologica. Perché Babylon è – al di là di ogni aggettivo altisonante – un’eruzione fisiologica per lo stesso Chazelle, quasi un orgasmo, un bisogno di vomitare addosso allo spettatore quell’incontrollabile amore per il Cinema, i suoi protagonisti, la sua Storia e i fantasmi che scivolano “dietro le quinte” e che a tutto ciò contribuiscono a dare vita; senza dimenticare l’altezzosità della classe dirigente e la perfidia della malavita che sta alla base della pantagruelica macchina produttiva hollywoodiana, accattivante per sua stessa natura, spietata per indole e necessità.

Con Babylon, Chazelle non guarda in faccia a nessuno: estremizza il peccato, rivolta i corpi, si ciba di situazioni appositamente paradossali, (re)inventa la Storia e utilizza una colonna sonora concepita come un corpo animato e scosso da violente vibrazioni sciamaniche e tribali, necessaria per enfatizzare una messa in scena che non sembra avere limiti. I limiti li impone necessariamente la fragilità dei protagonisti, audaci nel compimento di un percorso che non li condurrà solamente verso una maturità artistica – o verso la stessa distruzione -, piuttosto verso la consapevolezza che la grandezza personale è solo un’illusione o, meglio, una parte della grande illusione collettiva materializzata dal Cinema stesso. Così come lo spettatore quasi anela il bisogno di poter abbandonare la propria esistenza anche solo per poco tempo, inabissandosi in un mondo che desidera, ma non gli appartiene, i protagonisti di Babylon – e, così, Chazelle -, possono solamente sognare di appartenere per l’eternità alla storia della Settima Arte: qui non contano le emozioni, è una questione di tempo; è il Cinema che resta, mentre i corpi diventano proprietà dell’immagine.

Stavolta Chazelle veste i panni di un regista spietato, perché Babylon è un film che non lascia scampo agli affetti sinceri, non veicola speranze e, per questo, risulta più vero di ogni tentativo di ingabbiarlo all’interno di un percorso critico che punta solo ed esclusivamente su metodi logici. Non c’è logica nelle orge dionisiache a cui assistiamo nell’irresistibile prologo; non c’è logica nella caotica fortuna che spinge un’ambiziosa giovane campagnola su un set, al suo primo tentativo di imbucata; non c’è logica nella depravazione e negli interessi che muovono lo star system hollywoodiano; non c’è logica nell’amore. È tutto un maelstrom di eccessi e lacrime, un festival di carne e speranza, un circo di luci, colori e musica, un finto cabaret di sogni infranti e vite spezzate. L’unico scopo, ciò che conta davvero, ci dice Chazelle, è godersela fino all’ultimo sospiro. Ai ricordi e alla memoria, ci penserà il Cinema, che evolve e cambia, come noi evolviamo e cambiamo, senza nemmeno rendercene conto.

 

Stefano Colagiovanni

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