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COVID-19, in casa e fuori: come cambia il lavoro in tempi di quarantena

Ultimo aggiornamento: 2 Aprile 2020 1:40
Simone Di Giulio Pubblicato 22 Marzo 2020
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Quando si è costretti a fronteggiare una situazione d’emergenza così estesa e paralizzante come questa, causata dall’epidemia da Covid-19, non ci sono abitudini che resistono. Figurarsi nel mondo del lavoro: stravolto, riadattato, a suo modo forzato. Se il settore sanitario è quello su cui ricade maggiormente l’attenzione degli addetti ai lavori, uno degli altri che ha subito un brusco stop è quello scolastico: didattica sospesa dal 5 marzo scorso, per ogni istituto di ogni grado, con il rischio che l’anno incappi in una chiusura anticipata. Con docenti e alunni costretti in casa, cosa rimane delle lezioni senza i banchi di scuola? Ce lo racconta una giovane insegnante di un istituto scolastico di primo grado della provincia di Latina: «Premetto col dire che non è facile sostenere la didattica a distanza, perché il contatto diretto tra docente e alunno è fondamentale. Comunque bisogna rimboccarsi le maniche e già dalla mattina contattiamo i nostri ragazzi, utilizzando tutte le piattaforme a nostra disposizione, dal registro elettronico ai vari social, su tutti Facebook e WhatssApp. Si assegnano i compiti e li si correggono, ma dobbiamo lavorare su foto o, al massimo, su allegati inviati. Spesso ci si accorge del disorientamento dei ragazzi, ma devo dire che stanno rispondendo alle nostre richieste con grande abnegazione. É nostro compito metter loro a disposizione più materiale possibile, perché ogni studente ha le proprie esigenze e tutti vanno seguiti passo dopo passo; questo perché non è importante ora puntare sulla quantità dei lavori da assegnare, ma fare una cernita di ciò che andrà maggiormente a incidere sulla loro formazione, materia per materia, cercando di essere più chiari e immediati possibili. É difficile per loro, così come lo è per tutti noi docenti: qui entrano in gioco le capacità di ognuno di noi, poiché essendo costretti a interagire con diversi strumenti tecnologici, noi insegnanti siamo soggetti a un continuo aggiornamento didattico. Cerchiamo di tutelare soprattutto i ragazzi più in difficoltà, che necessitano un supporto maggiore e che, magari, non possono avere al loro fianco durante la didattica a distanza figure che li accompagnino: ecco perché sta a noi pensare a 360 gradi, per permettere a tutti i nostri studenti di completare, nel possibile, un percorso di fondamentale importanza per la loro crescita e formazione». Non solo “a scuola” ci si affida allo smart-working: con la riduzione degli orari di apertura al pubblico dei servizi essenziali nel settore amministrativo-finanziario, anche gli sportelli bancari hanno dovuto tirare la cinghia al normale andamento lavorativo quotidiano. Come ci spiega un operatore bancario del territorio pontino, costretto a supportare le esigenze dei clienti che non possono di certo essere tarpate, soprattutto in questi giorni caotici: «Rispetto a ciò che sono abituato a fare in filiale, il mio lavoro assume, purtroppo, una valenza di gran lunga relativa: si lavora a distanza, in special modo grazie ai social, offrendo consulenze il più esaustive possibili ai vari clienti; con alcuni ho diversi contatti telefonici, necessari per garantire massima informazione e tutela. In molti chiedono precisazioni sugli orari di chiusura o di apertura della filiale, mentre altri si rivolgono per chiarimenti in merito alle nuove regolamentazioni descritte nei decreti governativi di questi giorni. La banca che rappresento ha stabilito aperture alterne delle filiali, così da coprire, nel possibile, una vasta area di territorio. Alcuni colleghi che si alternano all’interno delle filiali offrono una consulenza spesso spiccia, potrei dire, poiché si tende a costringere il cliente il minor tempo possibile all’interno della struttura; vengono garantiti quei servizi del tutto necessari, come la riconsegna di una bancomat smarrito. Ma il personale è ridotto. Anche noi dobbiamo mantenerci al passo con i vari aggiornamenti fiscali che il governo è impegnato a ideare in questi giorni, per questo siamo coinvolti in corsi online che diventano strettamente necessari». Se il rapporto docente-alunno e quello che intercorre tra chi offre un servizio essenziale e i fruitori dello stesso necessita enormi scrupoli e il massimo della trasparenza, non possono passare in secondo piano le esigenze di chi vige in uno stato di precarietà perchè bisognoso di integrazione e assistenza. Come i numerosi richiedenti asilo, accolti dai centri di prima accoglienza, tutelati dagli SPRAR e seguiti giornalmente da operatori ormai abituati a gestire carichi di lavoro non indifferenti. Si tratta, in questo caso, di un lavoro gestionale a distanza che deve sopperire a una collaudata serie di operazioni che necessitano abitualmente di un contatto diretto con i richiedenti asilo. «Siamo costretti a limitare al minimo gli spostamenti, per cui un solo operatore deve prendere a carico il controllo di diverse strutture in contemporanea, ancor più del normale. Per limitare al massimo gli spostamenti dei ragazzi da tutelare, gli operatori avranno il compito di mobilitarsi per adempiere ai servizi di maggior necessità al loro posto; parliamo di ragazzi in difficoltà, che continuano anche a lavorare nel settore agricolo, che non conosce pause; spetta a noi munirli di tutti i dispositivi di protezione individuali necessari, così come lavoriamo per implementare le spese per il loro igiene, grazie a strumenti disinfettanti», dichiara un giovane operatore di uno dei più importanti centri di accoglienza della provincia di Latina. «I nostri uffici sono chiusi e i rinnovi dei visti e i colloqui sono tutt’ora bloccati. Da casa monitoriamo le richieste di asilo e seguiamo gli aggiornamenti della Questura. Facciamo quel che si può». Per poi chiosare rivelando un aspetto delicato di un lavoro che necessita enorme sensibilità: «Dobbiamo pensare anche all’aspetto psicologico, perché questi ragazzi di cui ci occupiamo hanno mostrato inizialmente molto scetticismo di fronte all’emergenza. Non si tratta di superficialità, perché per molti di loro che provengono da realtà infernali, cresciuti a stretto contatto con violenze di ogni sorta, prendere le distanze da un nemico invisibile non è semplice. Ma con il giusto approccio, hanno capito quanto sia fondamentale attenersi alle direttive di salvaguardia emanate dal governo». Ma per chi il lavoro da casa diventa un modo per contenere spostamenti e dare continuità alla propria professione, c’é chi a lavoro sta continuando ad andare, perché in alcuni settori lo smart-working diventa un’opzione impraticabile. Come racconta un giovane operaio in una nota struttura di produzione farmaceutica del territorio: «Grazie a spostamenti alternati e a ingressi e uscite controllate, si fa di tutto per rispettare le rigide norme di sicurezza. Siamo stati raggruppati in reparti-bolle di 5-6 persone al massimo e i turni di lavoro sono proceduti da operazioni di vestimento e pulizia in spogliatoi costantemente disinfettati. Prima di questa emergenza si timbrava e si procedeva verso il reparto, ora invece ci spostiamo in file rigorose, ognuno a distanza dall’altro, sia a inizio, che a fine turno. Siamo muniti di mascherine, guanti, occhiali e di tutti gli strumenti necessari per poter svolgere il lavoro nella maniera più asettica possibile. Si respira un’aria pesante, ma l’azienda ha preso tutte le misure di sicurezza richieste. Nonostante l’emergenza Covid-19, il settore farmaceutico non può subire rallentamenti e la produzione procede al meglio, senza intoppi. Si lavora in procedura, ma manca la consueta spensieratezza che, per fortuna, riusciamo a trovare in parte tra noi pochi, in ogni singolo reparto. Ma ciò non toglie che temiamo di essere contagiati. Dobbiamo resistere, perché il nostro lavoro è di vitale importanza». Gli fa eco un dipendente del M.O.L., il grande mercato ortofrutticolo di Latina, che non può permettersi di confrontarsi con intoppi, poiché il continuo approvvigionamento e distribuzione alle catene alimentari di ogni livello di beni di prima necessità resta insindacabile. «La lotta contro questo nemico invisibile si riflette su ogni attività, certo. Va detto che il commercio non si assesta sui livelli eclatanti in normali periodi di attività lavorativa, ma il lavoro non manca; frutta e verdura sono beni di prima necessità, ma non ci si può di certo lamentare di un calo così minimo. Le entrate del mercato sono controllate con perizia ed é stato annullato il turno di lavoro notturno, così il mercato riapre alle 5 di mattina; l’ingresso per i trasportatori è stato ridotto a due giorni settimanali, mentre è stato totalmente proibito ai clienti. Si entra solo dalla sbarra, così da permettere agli addetti di controllare qualsiasi mezzo o individuo in entrata, che in uscita, ma va detto che non si sono mai create situazioni spiacevoli o ingorghi per caricare e scaricare le merci. Chiunque viene controllato con accuratezza e tutti sono muniti dei regolari sistemi di protezione individuali; magari per chi viene da lontano vigono restrizioni maggiori e non è permesso loro scendere dai mezzi di trasporto. Anche chi lavora nel reparto amministrazione e contabilità è munito delle dovute protezioni, ma nonostante tutto è impossibile non avvertire la tensione che un momento così delicato porta con sé. É inevitabile. Dobbiamo essere molto attenti, ma stiamo dando tutti il massimo». E che la si rapporti al nostro territorio o alle scellerate titubanze inglesi, le difficoltà sono sempre le stesse. O quasi. Parola di un coetaneo che vive e lavora a Londra da più di qualche anno: «Togliamoci subito il dente marcio: Boris Johnson. É chiaro che ha temporeggiato nel prendere decisioni in linea con quelle europee solo per avere vantaggi al termine della pandemia, mettendo colpevolmente in secondo piano la salute di tutti noi, per non parlare di alcune assurdità come l’immunità di gregge. In aggiunta, c’è un tratto psicologico nazionale per cui un inglese farà sempre di testa sua, anche a costo di rimetterci. Questo detto da osservatore esterno, proveniente da una cultura diversa. Io sono abbastanza fortunato perché la mia compagnia dà abbastanza flessibilità ai dipendenti. ho potuto portare a casa uno schermo dall’ufficio e ho accesso a tutti i servizi che mi occorrono per lavorare. In ufficio ho un computer fisso molto più potente del portatile aziendale, a cui posso accedere in remoto. Le infrastrutture per lavorare in remoto sembra che reggano, tenendo conto che praticamente il 90% del personale sta lavorando da casa. Io ho più o meno sette teleconferenze alla settimana, e tutte quante sono andate senza problemi. A me non piace lavorare da casa. Mi piace prendere i mezzi per andare in ufficio, chiacchierare coi colleghi e, magari, andare al pub una volta finita la giornata. Ho cercato di replicare la distinzione ufficio/casa mettendo il portatile in salotto. Per ora sembra funzioni, vediamo come andrà più avanti. In aggiunta, condivido casa con altre due persone. La prima settimana è andata bene, però non escludo frizioni in futuro se il confinamento durerà a lungo. Quindi va da sé che questo non è il mio scenario lavorativo preferito. Penso che la compagnia avrebbe potuto incoraggiare i dipendenti a lavorare da casa con più anticipo. Secondo me, anche loro si sono svegliati tardi. Semplicemente se ne sono lavati le mani dicendo “seguite le direttive governative del Paese in cui lavorate”. Penso sia l’esperienza più vicina all’essere in prigione che uno possa vivere. Ma è necessaria, per il bene di tutti». Tutto il mondo è paese, si dice. E il lavoro non può attendere. Perché anche tra mille sacrifici, il mondo deve andare avanti.

Stefano Colagiovanni

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