“Qualche anno fa la scuola di Ceriara di Sezze veniva intitolata ad un soldato, eroe della resistenza, il setino Aldo Bottoni. A pochi giorni dalla fine della seconda guerra mondiale dette la sua vita e la sua giovinezza per noi, perché potessimo essere liberi. Questa, invece, è un’altra storia. E’ la storia di un altro soldato, eroe e “santo” che dette la vita durante la prima guerra mondiale per la sopravvivenza della sua famiglia. La sua famiglia, la mia. Si chiamava Cesare Mele, la stele grigia della tomba avrebbe bisogno di restauro. Si trova nella parte storica, monumentale, intorno tante altre lapidi, spezzate, dimenticate. La foto mostra un bel ragazzo moro in divisa, coi baffetti; l’epitaffio recita: Cesare Mele di Antonio Granatiere Come Prezioso Olocausto Per la Vittoria italiana Volò in seno agli Angeli Alla verde età di anni 22 I Genitori Inconsolabili ed Esanimi posero”. La segnalazione ci arriva da una nostra lettrice, Lucia Fusco che continua nella documentazione storica: Era il 1918 e Cesare, Granatiere di Sardegna, si trovava sul fronte veneto. Da qualche tempo, da casa, riceveva lettere con una calligrafia sconosciuta, e anche le parole non erano quelle in uso a casa sua. Preoccupato, chiese una licenza di qualche giorno al Capitano al quale mostrò le lettere e i dubbi. Dopo giorni di viaggio arrivò in treno, sul “Tuppitto”, che lo lasciò a Velletri. Poi arrivò a casa con le ali ai piedi. La casa a Suso, era silenziosa. Trovò gli scuri chiusi e la porta semiaperta: il padre, Antonio, aveva la febbre alta e non lo riconobbe, la mamma, Filomena, in un sussurro, gli raccomandò di stare attento: la Spagnola li aveva colpiti. Che andasse all’Alberito a Ceriara, dove le bestie erano rimaste legate agli alberi di olivo…; anche i fratellini e le sorelline erano malati: il più piccino, Angelo, di pochi mesi, non lo aveva ancora conosciuto, era il più grave. Cesare non si perse d’animo e preparò del vino caldo al quale aggiunse il prezioso chinino di cui, soldato, era provvisto. Raffreddato il liquido lo fece bere ai familiari. Tutti n e assunsero una dose tranne il piccino, perché davvero troppo piccolo per bere quel liquido terribile. Poi, a dorso d’asino, partì per la via delle Quartara, tratturo che da Monte Trevi scendeva fino a Ceriara, a pochi passi dalla palude, dove c’era, solitaria, l’osteria di Panici e poche capanne. Raggiunto “l’Alberito” portò sollievo agli animali. Li liberò dalle corde perché pascolassero. Riempì di acqua tutti i “comodi” e poi, prima di tornare a casa, perché era piuttosto stanco del viaggio e delle emozioni che stava vivendo, seminò il favino, in modo che crescesse nuovo cibo per gli animali.Ma la spagnola lo aveva preso e, tornato a casa, si mise a letto, febbricitante. Il papà, la mamma, Filomena “Calazi”, i fratellini e le sorelline intanto stavano meglio e lo aspettavano per festeggiarlo. Filomena subito si recò dai Carabinieri per spiegare che il figlio Cesare si era ammalato di Spagnola, e non avrebbe potuto ripartire, l’indomani; ma il Maresciallo rispose che, vivo o morto, doveva risalire sulla tradotta e tornare al fronte. <


